martedì 20 marzo 2012

MARTEDì 20 MARZO: prostituzione, violenza e immaginario sessuale maschile; Alessio Miceli


Curriculum di Alessio Miceli
Alessio Miceli è insegnante di diritto e di psicologia sociale nella scuola superiore. 
Nel mondo associativo, è presidente dell’associazione nazionale Maschile Plurale (www.maschileplurale.it), che ha prodotto una serie di iniziative pubbliche e di documenti contro la violenza maschile sulle donne (come l'appello agli uomini: “La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini”, 2006). 
Con l’associazione Maschile Plurale, interviene quindi sul tema della violenza maschile contro le donne, della maschilità e delle relazioni di genere, sia negli incontri pubblici che nelle scuole e in diversi contesti di formazione.
Nello stesso ambito, ha organizzato con l’associazione Officina di Milano le rassegne di incontri “Il velo degli uomini” (2007) e “La relazione necessaria” (2009), nella cintura di Milano.
Ancora con Maschile Plurale ha organizzato l’incontro pubblico e con le Associazioni che si occupano di prostituzione e tratta: “Quell’oscuro soggetto del desiderio. Immaginario sessuale maschile e domanda di prostituzione e tratta” (Torino, 9 e 10 ottobre 2010).
Collabora a Milano con Marisa Guarneri, presidente della Casa delle donne maltrattate. 
Questa collaborazione ha portato all’incontro pubblico, organizzato da Maschile Plurale e dalla Casa delle donne maltrattate, presso la Camera del lavoro: “Uomini e donne: darsi occasioni di verità. Per un lavoro diverso sulla violenza” (Milano, 23 maggio 2011). 
Scrive articoli sulle tematiche delle relazioni di genere, per diversi siti e riviste.

Presentazione alle Associazioni dei lavori di Maschile Plurale,
in rete con i gruppi uomini di diverse città
 
- Alessio Miceli, presidente di Maschile Plurale -
 (Torino, domenica 10 ottobre 2010)
Grazie alle Associazioni di essere qui, di avere risposto all’invito di Maschile Plurale. Vediamo come si può riportare il nostro lavoro, che è complesso, però secondo noi merita già uno scambio.
Il percorso che vi propongo, per poi lasciare spazio alla discussione, parte dalle domande che noi stessi ci siamo posti, già nel documento di presentazione dell’incontro. 
Vorremmo porre queste domande anche pubblicamente, a partire da noi stessi per iniziare e poi ad altri uomini nella società. E poi vedere se questo nostro approccio al mondo maschile incontra quello delle Associazioni che lavorano sul tema della prostituzione e della tratta.
Quindi riprendo brevemente le nostre domande principali, tratte dalla presentazione.
Per prima cosa, c’è un terreno comune tra chi è cliente e chi non lo è? E c’è un immaginario della sessualità maschile come forma di dominio? Il che potrebbe essere un terreno comune tra clienti e non clienti, o comunque una cultura in cui si radica la domanda maschile di prostituzione.
Anziché lasciare questa domanda sui clienti soltanto agli addetti ai lavori, agli esperti del settore, magari in chiave di medicalizzazione, psicologizzazione, ecc, l’idea è quella di estendere la domanda all’intera parte maschile della società, soprattutto sul proprio immaginario sessuale.
Seconda domanda: possiamo, però, riconoscere forme diverse della sessualità maschile, che forse coesistono e confliggono con la sua forma dominante, anche in noi che ne parliamo?
Pensiamo ad altre possibilità del nostro essere maschi. Sono immagini ed esperienze di relazioni libere e non violente tra uomini e donne, di riconoscimento e di rispetto degli orientamenti affettivi e sessuali di ogni persona
Come abbiamo lavorato, rispetto a queste domande fondamentali?
Abbiamo cominciato a porre a noi stessi queste domande sulla cultura maschile della sessualità, sia come Associazione nazionale, che nella rete più ampia dei gruppi di uomini. Così ci sono state discussioni di gruppi in diverse città, a Roma, Bari, Napoli, Verona, Torino, Pinerolo.
E poi qui a Torino, nel nostro incontro di ieri, i vari gruppi hanno riportato le loro riflessioni, la cui particolarità è anche quella di parlare di sé, e non soltanto di oggettivare questo discorso e quindi distanziarlo da sé stessi.
Molto si è detto sul piano dell’immaginario sessuale. Quindi non importava soltanto direttamente l’eventuale contatto con prostitute, quanto le nostre fantasie, quella cultura che sostiene poi il fatto di andare con le prostitute.
La mattina è stata dedicata a queste relazioni dei gruppi che penso di potervi riportare, perché erano già in una forma servibile per un racconto.
Invece nel pomeriggio abbiamo avuto uno scambio in piccoli gruppi, più in soggettiva, in una forma più vicina all’autocoscienza, perché ognuno si potesse esprimere rispetto a quegli argomenti: quindi una materia magmatica che non riesco a riportarvi, su cui riflettere molto di più.
Vi riporto quindi il materiale relativamente più strutturato delle nostre discussioni, che parla del nostro immaginario sessuale maschile, cioè a partire da noi stessi, e che vorrebbe illuminare qualcosa da far diventare discorso pubblico. Ovvero come un certo immaginario possa segnare una contiguità tra chi sceglie di andare con delle prostitute e chi sceglie di non andarci.
E poi vorremmo verificare con voi, in una seconda parte, se questo nostro approccio alla cultura maschile della sessualità, qualora diventi parola pubblica, possa incontrare il vostro lavoro: i vostri progetti con le prostitute, con le donne sotto tratta, o anche con la prostituzione maschile.
Entro in quello che i gruppi locali hanno raccontato e condiviso ieri con tutti gli altri presenti.
Cominciamo dal contatto con la prostituzione e dai motivi che porterebbero a questo contatto da parte di uomini (teniamo conto che la stragrande maggioranza della domanda di prostituzione è maschile).
Intanto si toccava questo nodo della intimità, si diceva: “Sesso a pagamento, domanda maschile di sesso a pagamento per evitare l’intimità autentica, per salvaguardarsi da una relazione vera di intimità”. O anche, al contrario, si parlava di “una domanda di intimità male direzionata, malposta”, cioè fittiziamente indirizzata a una prostituta, finzione che normalmente va a cadere, difficilmente sostenibile. Quindi, nella relazione domandata dagli uomini alle prostitute, un nodo è nell’evitamento dell’intimità, oppure in una sua richiesta fittizia. 
Poi ci si chiedeva, anche in questo sistema della prostituzione, nell’incontro reale con queste donne, o transessuali o uomini (dato che la domanda maschile è anche di prostituzione transessuale e, pur in misura molto minore, di prostituzione maschile), quanto si incontri appunto la persona, quanto e quale spazio ci sia o meno per una relazione interpersonale.
Questo discorso si sviluppa anche nella questione dei clienti, che possono favorire percorsi di uscita delle donne che incontrano sotto tratta, ma bisogna vedere a quali condizioni.
Poi si parlava dello “stigma, di questo senso di sporcizia verso chi si prostituisce”, delle “prostitute come discarica, come cloaca” – come diceva già san Tommaso –, quindi della percezione sociale delle prostitute come posto dove scaricare la propria sporcizia, ovvero i propri istinti e comportamenti sessuali.
Quindi gli uomini si potrebbero mantenere puri in quanto troverebbero in società questo posto dove discaricare la propria sporcizia, i propri liquidi, il proprio sperma. Si parlava anche di azioni di disprezzo verso le prostitute, come andare a far loro dei gavettoni con delle buste piene di pipì. Quindi, anche fisicamente, le prostitute sarebbero un luogo di discarica maschile dei propri liquidi, portatori di un vissuto di sporcizia della propria sessualità.
Naturalmente si parlava anche del nodo potere/denaro, che in prima battuta sembra essere potere di chi paga, per il fatto stesso che ha il denaro con cui pagare la prestazione sessuale. Ma la discussione è forse più complessa.
Rimane questo valore del denaro come strumento di potere, che compra il corpo dell’altra, la sua prestazione come compra una merce, quindi questo valore di mercificazione, di oggettificazione dell’altro.
Anche in questo, però, per non tagliare con l’accetta, bisogna riconoscere che c’è una contrattazione e poi c’è uno scambio materiale dei corpi. Si parte dal presupposto del denaro, ma poi i corpi si incontrano e possono succedere altre cose.
Un altro nodo che si toccava era quello della morale sessuale, anche segnata nel nostro paese da certo cattolicesimo conservatore, da certo moralismo, familismo, ecc… contro la possibilità di una libera scelta, anche “disimpegnata”, delle proprie relazioni sessuali come relazioni di gioco e di piacere e non per questo amorali o necessariamente immorali.
In questo quadro, rimane anche da chiederci come mai quasi tutta la domanda di prostituzione sia da parte di uomini, nell’ordine di alcuni milioni. Cosa c’è, dunque, nella domanda maschile di prostituzione? Cosa può contenere questa domanda così diffusa tra i maschi, probabilmente di culturalmente costruito (e quindi di estensibile nel discorso pubblico), che in qualche modo noi stessi possiamo riscontrare in quanto uomini di questa società, ciascuno a livello delle proprie fantasie e delle proprie immagini? 
Soprattutto ci interessa, nel metodo di questo discorso, come per i nodi che riportavo prima, il fatto che la domanda di prostituzione porta a parlare di altre dimensioni “normali”.
Si inizia parlando di prostituzione e si finisce per parlare di asimmetria tra uomini  donne, di potere nelle relazioni, di chi ha denaro e chi non ne ha, del bisogno sessuale dell’uno e dell’altra (che nei maschi sarebbe irrefrenabile, “naturale” e quindi da qualche parte lo si deve collocare)…
E quindi si vede, per il tramite della prostituzione, che ci si porta a parlare delle relazioni tra uomini e donne, tra persone.
Qualcuno diceva che la prostituzione può servire a tranquillizzarsi, perché attraverso il pagamento, attraverso il denaro, si esce fuori dall’ambito del giudizio, della prestazione. Non si viene giudicati, non si viene rifiutati, c’è un contratto in cui si compra qualcosa e basta (anche se poi nella realtà della relazione non è esattamente così). Quindi una forma di uscita dall’ambito del giudizio e, di più, da tutto ciò che una relazione a tutto campo richiederebbe.
Poi c’è forse la fatica, nelle relazioni più stabili, a confrontarsi con la propria compagna o moglie sulle fantasie sessuali o sulle pratiche sessuali. 
Di fronte a questa difficoltà di confrontare le proprie fantasie, ci può essere questo “scarto di lato” rispetto alla propria relazione stabile, questa necessità da parte di molti uomini di avere altri incontri, appunto affrancati dal giudizio e senza incontrare la possibilità del rifiuto o l’alterità appunto dell’altra persona.
Poi quando si incontrano davvero le prostitute, si parla della caduta di alcuni stereotipi, da parte di qualcuno che con Associazioni come le vostre ha fatto unità di strada, è andato a vedere e a fare delle azioni. 
Si riportava il fatto di incontrare delle ragazze molte volte “normali”, per esempio dell’Est, romene, moldave, ecc, che vivono quel loro momento di prostituzione anche come un progetto lavorativo che le liberi da altre forme di sfruttamento economico molto più durature. Per queste ragazze può essere fare la prostituta per un anno, accumulare dei soldi, tornare nel proprio paese, comprare una casa o fare qualcosa di diverso da prima.
Quindi da parte di alcuni uomini che hanno avuto queste esperienze c’è la riflessione di avere incontrato persone molto diverse da quelle che ci si aspettava nel ruolo delle prostitute, e la possibilità di riconoscere nel loro percorso anche una liberazione da altre forme di sfruttamento.
Rimangono però, da parte di tanti uomini, questi comportamenti che dicevo prima di disprezzo, di sarcasmo, di insulto. Rimane il fatto di avere nelle prostitute dei facili obiettivi su cui sfogare la propria voglia di aggredire, di offendere, di colpire.
Quello che nella fantasia sessuale diventa a volte fantasia di dominio, appunto di “prendere una donna che faccia tutto quello che vuoi tu”. 
C’è anche l’iniziazione degli adolescenti, l’idea abbastanza normale (almeno fino a qualche tempo fa) che la sessualità per i maschi inizi così, con l’andare dalle prostitute magari in compagnia di maschi più grandi che li introducano a questo mondo.
Rispetto a tutto questo, bisogna anche non tacere il rapporto padri-figli, che alcuni riportavano come “un vuoto di accompagnamento rispetto alle forme della nostra sessualità”, al pensiero e alla cultura della sessualità.
Dunque una sessualità maschile lasciata a se stessa, pensata come un impulso, un bisogno fisiologico sfrenato e incontrollabile, questa “potenza naturale” che agirebbe i maschi dal basso.
In molti diciamo che anche questa è rappresentazione, un modo di intenderla, e anzi, che proprio questo modo di intendere la sessualità maschile, questa sua “naturalizzazione”, può diventare giustificazione del fare qualunque cosa, senza responsabilità di ciò che si fa.
Quindi ci sarebbe un rapporto padri-figli spesso di non accompagnamento alla sessualità degli adolescenti maschi. Qualcosa come un vuoto fisico, del non essere accanto ad un adolescente in certi momenti per lui importanti. E’ anche un vuoto emotivo e di parola, del non avere capacità di ascolto e parole per dire queste cose, probabilmente perché anche nella propria vita adulta molte volte non si sono maturate “le parole per dirlo”.
Così, in questo vuoto di accompagnamento, sarebbe ancora lì un vissuto di paura, svalutazione, vergogna, tabù della sessualità, a fronte della amplissima offerta sessuale nelle forme della prostituzione e della pornografia.
Dunque da una parte c’è la possibilità di agire la propria sessualità, anche con le prostitute, e anche di essere immersi in questo brodo di coltura della pornografia, in cui le immagini della sessualità viaggiano dovunque le possiamo vedere, comprare, consumare.
Però questa facile fruizione della pornografia o della prostituzione non toglie la paura della sessualità, in una cultura che al di là del consumo non le assegna un posto, che non sa bene come pensarla, come trattarla. O non lo vuole fare.
Rimane quindi un grande interrogativo sul desiderio maschile. In questo vissuto e in questo pensiero della sessualità maschile, come decliniamo e come viviamo il nostro desiderio?
Se è vero che in molti uomini c’è paura del desiderio, a partire dal proprio, qualcuno diceva che “questa paura tende a smorzarlo, prevenirlo, negarlo, sostituirlo con un desiderio standardizzato, omologato, in cui non si rischia niente”.  Ci si adatterebbe alle rappresentazioni correnti e rispetto a questo può ritornare l’uso della prostituzione o dell’immaginario pornografico.
Ma uscendo da questi pacchetti preconfezionati, il desiderio si potrebbe dire desiderio di che cosa?
Desiderio di riconoscimento, desiderio di amore, di imprevisto e di imprevedibile, cioè desiderio di una libertà nella relazione (e non dalla relazione). Desiderio di una relazione libera, che corre anche il rischio del rifiuto, che corre il rischio dell’incontro e dell’alterità che c’è appunto nella relazione.
Non correre questo rischio, non riconoscere questa profondità, questa dismisura del nostro desiderio, vuol dire non riconoscere il proprio e neanche quello dell’altra o dell’altro a cui siamo di fronte.
Questo mix, di disconoscimento da parte di molti uomini del proprio e altrui desiderio, e di forte domanda e offerta di sesso e immaginario sessuale preconfezionato (o che rispecchia quello esistente, ma in una maniera molto rigida, conservativa), comporta che nella nostra società maschile ciascuno può essere un potenziale cliente. Perlomeno dal punto di vista delle fantasie sessuali, che stanno in questo quadro sociale, ciascuno può avere un terreno comune con chi decide di agire queste fantasie.
Ma forse è importante fare questo passo indietro, a questa cultura di riferimento, e riportarla anche nel discorso pubblico.
Nel metodo, si parlava anche di come discutere con i clienti delle prostitute, di tutti questi contenuti.
Probabilmente è molto importante non giudicare in partenza, perché altrimenti non solo non si conduce quella relazione, ma soprattutto non si va avanti mentalmente ed emotivamente rispetto a ciò che tanti uomini esprimono.
Quanti uomini, poi? Due milioni, quattro, cinque,o nove o dieci? C’è un problema di incertezza dei dati, anche se gli addetti ai lavori ne discutono nell’ordine dei milioni..
Quindi si diceva dell’importanza di discutere senza un pre-giudizio morale.
Ma discutere anche senza quella indifferenza che porta a dire, in nome di un certo liberalismo: “Che problema c’è? Se sono adulti e consenzienti e si paga, è un fatto di mercato, se le persone sono d’accordo va bene così”.
Anche questa forma di indifferenza non ci riguarda granché. Si può capire questa idea di un accordo tra persone adulte, qualora non ci siano forme di schiavismo, però molti di noi rimangono distanti da questa idea di libertà nei consumi, come andare al supermercato.
Entrare proprio nel merito di questa esperienza, della domanda maschile di prostituzione, al di là della scorciatoia del pre-giudizio morale o di una idea di libertà che si limita ai consumi, ci sembra richiedere altri passaggi. 
Ovvero ci poniamo, ancora una volta, la domanda di qual è l’immaginario sessuale maschile, che sostiene il fatto di essere clienti di prostitute.
E poi vorremmo parlare della responsabilità dei clienti, cioè del chiedersi chi c’è dall’altra parte, se c’è una persona che può scegliere liberamente il proprio comportamento sessuale e di prendere soldi o meno, oppure se vi sono situazioni di schiavizzazione, quindi tutto il tema della tratta.
Riporto ancora qualche testimonianza della propria esperienza, da parte di uomini della rete di clienti ed ex clienti di donne in regime di tratta (Progetto Ragazza di Benin City).
La voce che sempre mi colpisce, nel discorso di questi uomini, è quella che riporta il loro stigma. Cioè i clienti (o ex) dicono di come socialmente ci sia questo marchio negativo su di loro, in genere pre-giudiziale.
Da una parte questo “ci sta”, ovvero si può comprendere facilmente, dato che raccontano esperienze forti sulla pelle di donne, che sicuramente quando sono sotto tratta l’hanno pagata in un modo molto pesante. Però questo stigma corrisponde anche, probabilmente, alla necessità di mettere su qualcuno la negatività, anche quando questo qualcuno ti sta raccontando l’emersione di una esperienza molto importante. Le due cose vanno insieme. 
I clienti (o ex) sono persone che si raccontano, che quantomeno portano sulla scena quello che normalmente è osceno, cioè è fuori scena, lo mettono lì come argomento di discussione, e tu stai entrando nella loro vita. A fronte di questo, naturalmente si sollevano delle emozioni anche negative. D’altra parte, se queste emozioni che si sollevano ricadono soltanto in uno stigma, si richiudono su se stesse, il discorso è finito prima di iniziare.
Rimangono forse alcune domande che bisognerebbe farsi, nell’incontrare l’esperienza di clienti (o ex). 
Una prima domanda riguarda la quantità di clienti in Italia (si contano le persone, o “i contatti”?), che è comunque nell’ordine dei milioni di persone. Questo dice di un fenomeno di massa e rimanda a quella cultura di cui parlavamo.
E poi qual è l’immaginario, quali sono le richieste e le aspettative dei clienti, che effettivamente si rivolgono alle prostitute?
E ancora, qual è l’impatto con la tratta? Lì entriamo in un terreno molto difficile, perché c’è questa proiezione di sé stessi che alcuni clienti raccontano, come di essere dei “salvatori” delle donne che aiutano nei percorsi di uscita dalla tratta.
Effettivamente si registra il fatto, importante, che alcune donne escono grazie ad ex clienti, e poi magari ci sono delle relazioni che non sono più comprate, nascono anche dei matrimoni e delle famiglie miste e così via.
Il margine di ambiguità di queste esperienze, che viene raccontato anche sinceramente da alcuni ex clienti, è quello che però si apre quando queste donne non hanno soldi, non hanno documenti, non hanno cittadinanza, non hanno…
Rimane quindi un elemento di sbilanciamento tra lei e l’ex cliente, di asimmetria e quindi di possibile potere di lui su di lei, di questo nuovo riferimento della donna.
In una discussione pubblica un ex cliente diceva, con grande sincerità: “Per molti ex clienti, sposare la ragazza di cui si sono innamorati è come portarsi a casa la propria prostituta”.
Questa frase mi è rimasta impressa, perché ci mostra un’ambiguità importante di quella esperienza. Cioè è vero che quella donna potrà uscire con quell’uomo dalla situazione di tratta in cui si trovava, ma il rischio è che poi ritrovi in lui “un padrone buono”. E poi, quando quella esperienza finisce, come altro si mette quella relazione?
Quindi, la questione diventa più complessa. Per comprendere come impatta l’esperienza dei clienti ed ex clienti sulle donne sotto tratta, se possibile, bisogna entrare nel merito delle loro relazioni. E vedere quanto ci sia ancora l’uso di una schiava da parte di un padrone, e invece a quali condizioni possa diventare una relazione di liberazione dell’uno e dell’altra.
Ultima cosa, la prostituzione transessuale, di cui in genere si parla poco.
Qualcuno riportava nella discussione la necessità di prostituirsi delle persone transessuali, per operare la propria trasformazione sessuale. Può esserci una necessità di denaro, molto denaro subito, per gli interventi da fare.
Oppure ci può essere la necessità di prostituirsi per accedere al lavoro, a volte l’unico accesso possibile per loro.
E questo pone una domanda in più, su una fascia di persone prostitute che sono molto visibili nelle strade, ma che noi non vogliamo vedere normalmente come forma della prostituzione.
Vado a chiudere. 
Personalmente sono rimasto stupito, a rileggere questi contenuti del nostro lavoro di ieri e che vi ho appena riportato, di quante cose ci siano in questo tema e quanto siano espunte dal discorso pubblico, almeno da quello circolante.

La domanda che adesso rilancio a voi, che siete qui per le vostre Associazioni, è come questi materiali e questo modo della discussione potrebbero stare a quello che fate voi.
Ci chiediamo se il vostro approccio di servizio negli ambiti della prostituzione e della tratta, e il nostro approccio alla cultura della sessualità maschile, possano convergere.
Forse lo strumento potrebbe essere quello di un convegno, nel 2011, in cui mettere insieme questi aspetti.


10 DOMANDE A NOI UOMINI ITALIANI, A PARTIRE DA ME,
SUL DESIDERIO SESSUALE MASCHILE VERSO LE DONNE
(di Alessio Miceli, in Via Dogana n° 91 – dicembre 2009)
C’è una domanda fondamentale che mi ronza dentro, da quando è esploso questo dibattito pubblico, dapprima intitolato a Berlusconi e al tema “sesso, denaro e potere”, fino al caso attuale di Marrazzo che getta ombra su altri uomini di potere e di rilievo pubblico. Come uomo, la prima domanda che mi appare è questa: di chi devo parlare davvero? Allora taglio corto: io trovo una sola via maestra per fare questo discorso ed è parlare di tutti gli uomini italiani a partire da me stesso, di quello che ci lega e anche ci divide nella nostra costruzione della sessualità maschile.
Infatti mi sembra che Berlusconi e Marrazzo oggi e non so chi altri domani non siano di più che delle maschere, delle figure più o meno caricaturali di ciò che la nostra società maschile nella sua maggioranza sta esprimendo, come dimostrano almeno due considerazioni. 
La prima è che altrimenti non esisterebbe il berlusconismo. E’ evidente questo rispecchiamento tra “il capo” e la maggioranza degli italiani che gli si stringe intorno, come già nelle ultime tornate elettorali e poi nei sondaggi successivi agli “scandali sessuali” (che a giudicare da questa complicità e identificazione di massa, scandali non sono). A tal punto che le dimensioni di questo rispecchiamento maschile con uomini di potere superano anche i confini politici tra maggioranza e opposizione. 
La seconda considerazione riguarda la ordinaria mercificazione del sesso, quei milioni di italiani clienti delle prostitute, di cui parlano gli osservatori dei fenomeni di tratta e prostituzione. Insomma, in Italia è più vero che mai che “il mestiere più antico del mondo è il cliente”. 
Dunque le caricature dei nostri uomini politici mostrano complessivamente noi stessi dietro quella maschera del potere, il nostro stesso volto sociale, certamente non l’unico ma ancora oggi il più diffuso. Le mediazioni del potere e del denaro, usate da tanti uomini nelle relazioni sessuali con le donne, parlano della nostra cultura delle relazioni. Non si tratta delle dimissioni di Berlusconi ma, molto di più, della sessualità maschile.
Allora, usando una formula attuale, vorrei rivolgere a ciascun uomo italiano le seguenti 10 domande su altrettanti nodi della nostra sessualità, a partire da me, uomo, eterosessuale. Sono questioni enormi, che qui vado soltanto a nominare.
1) “Oscuro materno” - 
A quale distanza emotiva ci ritroviamo rispetto alle nostre madri?
C’è una impronta oscura, nel mio fondo maschile, legata a mia madre. Riconosco nel mio percorso questo senso di pericolo, che avvertivo fin da bambino, come un rischio di invischiamento e di fagocitazione. All’opposto, la mia salvezza era nella strada, era la necessità di prendere distanza, di uscire di casa, partire lontano e quasi sparire (io da lei, lei da me).
E poi c’è il lavoro di una vita, di elaborazione della posizione di figlio e il ritiro di certe proiezioni dalla madre. Questo può significare il recupero della relazione proprio con quella donna, come un accompagnamento, e così pure il ripensamento del suo calco in noi stessi. E’ in gioco il nostro spazio vitale, la nostra “giusta distanza” nelle relazioni.
2) “Ambivalenza” - 
Nella ‘altalena’ della relazione di coppia, ci spingiamo di più nella zona della fiducia o della sfiducia?
Credo che nell’esperienza amorosa sia costitutiva l’ambivalenza, il sentimento del “né con te né senza di te”. Che rimanda alla costruzione della nostra fiducia.
C’è una polarità della sfiducia amorosa, che come uomo ho attraversato prima ancora di pensarci, già “in prima lettura” della mia vita. Era il senso di uno spossessamento, una espropriazione di me, forse legato ad una con-fusione dello stare insieme. Peraltro, ben nascosto nell’archivio delle mie immagini maschili e ben prima di riconoscerlo, ho trovato prefabbricato anche un certo senso di svalutazione delle donne a me più care.
Ma conosco anche il territorio della fiducia amorosa, legata al riconoscimento nella relazione, sia dell’altra che di me stesso. Qui non c’è perdita o svalutazione, ma al contrario la scommessa di darsi valore. Cosa ci può muovere a giocare questa scommessa della fiducia? Credo sia il desiderio e poi la capacità di confrontarci con le sue figure.
3) “Desiderio sessuale maschile vs potere” - 
Viviamo la relazione sessuale più come una conquista, una ‘lotta’, o come un modo di ‘abbandonarci’?
Il desiderio sessuale maschile è storicamente segnato dalla dimensione del potere. Questi due campi del nostro sistema simbolico entrano però in forte contraddizione.
Da una parte la spinta erotica del piacere sessuale tende all’abbandono, come una forma di estasi, chiama a uscire da sé e trascendersi nell’altra. Vuol dire partecipare a un’altra vita, liberare qualcosa di sé e dell’altra che ancora non conosciamo. Io la vivo come nuotare in mare aperto.
Conosco però anche l’immaginario sessuale del potere, che funziona invece come una lotta, per la conquista del controllo dell’altra. E’ la pulsione a tenere, stringere, dominare. Qui subentra il principio violento di riduzione a sé dell’altra e, consapevole o meno, il pensiero fallico del pene e della penetrazione come arma. Forse questa necessità di controllo risponde alla grande paura maschile di perdersi, uccidendo però il desiderio sessuale, che ha a che fare con l’incontro libero. In questo contesto, potere e godere sono termini opposti: il potere dimostra qui una forma di impotenza a lasciarsi vivere in pienezza le relazioni.
4) “Intreccio maschile tra desiderio sessuale e cura” - 
Come teniamo insieme la dimensione della cura e la nostra carica erotica, nella relazione di coppia? 
C’è una mancanza ancora forte da parte degli uomini, rispetto alle donne, nell’ambito della cura in diversi contesti. Il punto che però voglio tenere è l’intreccio maschile tra desiderio sessuale e cura. Personalmente, ho pianto calde lacrime sulla canzone di Battiato La cura (che trovo ancora bellissima per come racconta la sua utopia), quando si è rotta la mia fantasia protettiva. Ma ho imparato qualcosa. Per esempio, che a volte la cura introduce nelle coppie una relazione sbilanciata, l’immagine di una figura forte che ne protegge una debole/filiale. Quando è così, con tutte le varianti della “protezione” al femminile-materno o al maschile-paterno, trovo una caduta della spinta erotica maschile.
Intrecciare questi ambiti, del desiderio sessuale e della cura, comporta forse qualcosa di diverso. Primo, riconoscere un legame di affidamento reciproco, che non solleva quei fantasmi genitoriali. Secondo, coltivare una capacità di autonomia e di distanza, nella relazione, che mantiene la temperatura del desiderio.
5) “Fuga o attraversamento maschile delle relazioni sessuali” - 
Nello spostamento del nostro desiderio sessuale e nell’incontro di diverse donne, cambia la qualità delle nostre relazioni?
Posto che ciascuno avverte la sessualità degli altri, questo crea dei campi di forze, di attrazione o meno, che a volte diventano una leva di cambiamento. E’ il movimento stesso della vita. Mi interrogo però sulla natura relazionale di questo cambiamento, per noi uomini.
Nella mia esperienza, questa fortissima corrente del desiderio mi ha spinto in due direzioni molto diverse. C’è un desiderio sessuale centrifugo, che rimane tangente alle relazioni, quasi un riflesso condizionato che ci porta a cambiare partner, proprio per non superare una certa soglia di intimità. Altrimenti, viviamo quella forma del desiderio sessuale che attraversa le relazioni, che corre il rischio di farle e anche di disfarle ma sempre passando per il loro centro. Significa fare la misura di una relazione e viverne le qualità: di piacere e di conflitto, di presenza e di limite.
6) “Corpo maschile osceno” - 
Nella relazione sessuale, viviamo il nostro corpo come desiderabile dall’altra?
Il nostro corpo maschile mantiene un carattere “osceno” (da ob-scenus), ovvero qualcosa che è avverso, contrario al senso della scena. Tende cioè a non mettersi davvero a nudo, a non esporsi nella sua intimità al desiderio o rifiuto delle donne. Le palestre, la moda, le immagini maschili (e machiste) nel contesto attuale della società dello spettacolo sembrano non modificare questo profondo substrato: come il vissuto di un corpo non desiderato, che deve guadagnarsi/conquistare l’attenzione dell’altra. Credo ci sia qui una radice violatoria della sessualità maschile.
Il disvelamento del nostro corpo e dei vissuti che porta con sé è dunque una novità, una frontiera delle nostre relazioni sessuali. Implica però l’assunzione della nostra parzialità, del non ritenerci l’unico soggetto del desiderio.
7) “Il silenzio o le parole del desiderio” - 
Sappiamo parlare del nostro desiderio sessuale? 
Nella “seconda lettura” della mia vita, trovare le parole per dire di me nella tensione del desiderio è stata ed è tuttora una chiave di volta. Ho incontrato diversi contesti di parola e di relazioni, tra uomini e donne o solo maschili, poco visibili finché non li ho cercati davvero.
E’ richiesta però una mutazione del nostro linguaggio maschile corrente. E’ un parlare ovviamente diverso dal grande silenzio maschile sui propri sentimenti. E’ anche un parlare diverso da quello dell’ego che dice “io, io, mio…”. E’ infine diverso da quel neutro maschile che invece si nasconde nel proprio discorso, che parla in ogni campo del sapere, senza però dire niente di sé in rapporto al suo oggetto. 
La disposizione che io ho conosciuto per dire il mio desiderio, per sentire vibrare dentro di me le mie parole, è invece quella di raccontarmi nella relazione, come parte di qualcosa.
8) “Desiderio sessuale maschile ‘mediato’ dalle donne alla generazione” - 
Il nostro desiderio sessuale ha una spinta propria, interna, alla generazione?
Alla domanda se volessi avere figli, ho sempre risposto: “tutto dipende dalla mia relazione d’amore, non è un mio desiderio autonomo”. Concepisco questo desiderio, per me uomo, non come quello diretto di avere un figlio/a, ma come quello di essere a fianco di quella donna che direttamente genera. Tutto si gioca dunque nella relazione, nello spazio che noi creiamo tra questi desideri diversi, a partire dalla differenza costitutiva della generazione tra uomini e donne.
9) “Dominio sessuale vs senso della morte” - 
Il controllo di una relazione sessuale ci dà la sensazione di non avere limiti?
Credo che l’accecante tensione al potere inteso come dominio, a partire dal dominio sessuale e poi in tutte le sue varianti – economico, politico, ecc -, sia infine un modo per esorcizzare la morte, come ogni altra “perdita” o trasformazione.
Quando “se ne è andato” mio padre, ho ripensato profondamente al senso del limite, a partire da quello estremo della morte. E ho trovato che proprio la cultura del limite, dell’impermanenza, ci restituisce al tempo presente e alle forme reali della vita e delle relazioni. Fuori controllo.
10) “Vivere i propri desideri o starne al di sotto” - 
E infine, il nostro desiderio sessuale ci fa vivere le relazioni?
Mi sembra che questo tempo di grandi cambiamenti, a volte socialmente feroci, sia però denso di opportunità. Nelle relazioni sessuali, io sento una grande opportunità per noi uomini nel nuovo corso di libertà aperto da alcune donne. Abbiamo la scelta di essere vivi, essere in gioco per noi stessi e per altri/e, anziché restare al di sotto dei nostri desideri.

ra donne e uomini a Milano un lavoro diverso sulla violenza 
(di Alessio Miceli, in Via Dogana n° 97 - giugno 2011 -)

Milano città aperta, laboratorio politico? Sì, e non soltanto in cadenza di elezioni come quelle prossime, ma a un livello di tensione civile diffusa nella società. Parlo della violenza maschile sulle donne e della possibilità che su questo tema enorme si promuova un cambiamento dal basso.
L’esperienza inizia oltre un anno fa da un desiderio condiviso tra me e Marisa Guarneri, amica e donna di riferimento a Milano per il contrasto alla violenza sulle donne, e si apre con questa lettera: “Care donne (tante) e uomini (pochi) attivi contro la violenza maschile sulle donne, con questa lettera esprimo un forte desiderio nei vostri confronti (…) Siete donne e uomini consapevoli e vi spendete contro la violenza sulle donne con passione e cultura del vostro lavoro, all’interno delle associazioni, delle professioni, delle istituzioni (…).
Però manca un salto politico su questo tema. Nonostante i numeri delle violenze riconosciute siano quelli di una guerra civile ed il sommerso dieci volte tanto, ogni violenza su una donna rimane un fatto a sé: non diventa mai un problema dell’intera comunità e ancor meno, mai e poi mai, una responsabilità della nostra cultura maschile.
Per questo, il desiderio e l’invito che vi rivolgo è quello di incontrarci, con l’idea di costituire un gruppo aperto, una comunità di esperienze da restituire (…) Significa arrivare a tanti luoghi della città e della socialità, dove far circolare pensiero autorevole fondato sulle esperienze di chi davvero le fa, a beneficio di tutte/i: donne mai più violate, uomini mai più violenti. Significa infine orientare dal basso le istituzioni, ad uscire dalla cultura del sommerso, della rimozione e infine della legittimazione della normale violenza maschile contro le donne”.
Ecco l’inizio di una proposta politica che ha preso forma in questa città, a cui Marisa di getto ha dato il nome di Un tavolo vero
Questa esperienza è nata, dunque, dal nostro desiderio e dalla reciproca fiducia di potere parlare e pensare insieme, tra alcune donne e uomini: a partire da sé e dai percorsi di accoglienza e di relazione tra donne alla Casa delle donne maltrattate di Milano, e dal lavoro su sé stessi e sulla maschilità dell’associazione nazionale Maschile Plurale. Ci siamo detti che già questa è una novità. Ovvero c’è stato un riconoscimento reciproco dei nostri percorsi di provenienza. Questi uomini conoscevano i percorsi di relazione tra donne per uscire dalla violenza subita da un uomo, questa metodologia dell’accoglienza nata dal femminismo per ricostruire l’identità, il senso di sé di una donna violata.. E queste donne riconoscevano, in alcuni uomini, i percorsi di ripensamento del maschile dominante e dei suoi nessi con la violenza sulle donne per decostruirlo, per fare la propria differenza in un nuovo ordine di relazioni nonviolente con gli altri uomini e con le donne.
E poi abbiamo aperto il nostro tavolo ad altre donne e uomini che avessero un’attività, un ruolo nell’ambito del contrasto alla violenza sulle donne (giudici, sindacalisti, sociologi, formatori, insegnanti…), ma che abbiamo invitato sempre per via di relazioni personali e non in rappresentanza di sigle come accade di solito nelle reti istituzionali contro la violenza. Anche questa misura delle relazioni nelle reti è forse una novità, se è vera la “interdipendenza competitiva nelle reti dei servizi” di cui parla la sociologa Sonia Stefanizzi nella ricerca Irer La violenza sulle donne, del 2009.

Così questo tavolo è diventato la scommessa di un nuovo intreccio di discorso tra donne e uomini: per questo è importante vedere, a partire dai nostri percorsi di provenienza, quale nuovo orientamento comune ci siamo dati; e poi su quali contenuti della violenza ci siamo parlati in profondità, abbiamo tessuto i nostri racconti; infine come abbiamo pensato di allargare questa esperienza in diversi contesti, per farne discorso politico.

Fermi restando i diversi percorsi separati di uomini e donne, e in particolare dei Centri antiviolenza, abbiamo parlato molto di altri percorsi da mettere in comune. Ovvero, se alcune donne si curano tra donne dalla violenza subita, e se alcuni uomini si accompagnano con uomini al di fuori del paradigma della violenza agita o simbolica, invece uomini e donne possono darsi una nuova fiducia per raccontarsi, per lavorare a togliere i semi della violenza dalla nostra cultura post-patriarcale delle relazioni. 
Qui non sono in gioco soltanto dei casi di violenza esplosa e dei percorsi terapeutici, ma la stessa aria che respiriamo, l’immersione in una cultura violenta delle relazioni e la possibilità di prenderci cura di questa cultura, di una intera società. Come la possibilità, anche per chi ha subito violenza, di tornare a una immagine intera dell’umanità non necessariamente violenta.
E’ un percorso a ritroso, a rispecchiarci nelle situazioni di possibile violenza, quelle che possono degenerare o creare nuove risorse, e parlare delle relazioni sottostanti a queste situazioni. Abbiamo imparato, in questo modo, quanto conta la capacità di ascoltare e integrare il punto di vista dell’altro con il proprio per comprendere la complessità e le ambivalenze delle relazioni tra uomini e donne, anche per entrare nei tabù delle relazioni, nelle zone d’ombra. Sentire, capire e raccontare l’intreccio di cui siamo parte.
Ma con questa metodologia del discorso, che si faceva nel farsi senza che nessuno l’avesse prestabilita e che ogni tanto commentavamo, di cosa abbiamo parlato? Di quali contenuti? Anche qui, non c’era un ordine del giorno, si partiva in fiducia soltanto dalla traccia della violenza e delle relazioni tra uomini e donne, e da quell’input per un salto politico nella lettera d’invito che ho riportato all’inizio.
Così abbiamo iniziato a parlare del quadro della violenza maschile sulle donne, delle norme e delle istituzioni collegate, delle donne maltrattate e degli uomini maltrattanti.
Poco dopo, già al secondo incontro, siamo arrivati a parlare delle nostre esperienze e vissuti di nodi relazionali, a partire da sé: quindi un parlare di sé non strettamente autobiografico, ma per cogliere delle proprie dimensioni che potessero incrociare anche quelle di altri. E così abbiamo parlato di tutto quello che ciascuno normalmente tiene sotto chiave nella propria vita, come strettamente privato, e che invece oltre ad un versante intimo ha anche un grande significato politico: le separazioni, il conflitto spesso per il controllo nella relazione, l’inizio e la costruzione della relazione stessa, il riferimento alle esperienze passate e a volte originarie, i legami alla madre o al padre o ai figli e alle figlie, i bisogni e la dipendenza dall’altro/a, il nodo della dipendenza insieme all’autonomia, il riconoscimento dell’alterità, la responsabilità, il rispetto, eccetera…
E naturalmente non si può riportare qui la ricchezza di tutto quello che ci siamo detti, ma si può riportare la scoperta di quello che d’altra parte è già noto: che parlare delle “cose segrete” suscita davvero nuove risorse esistenziali. Sono sempre tornato a casa “con le mani piene” e un senso di gratitudine per queste donne e uomini compagni di strada.
Ora però rimane da dire come allargare questo discorso nella città e possibilmente in diverse città, a partire da dove viviamo. In questo senso, abbiamo parlato spesso di diversi contesti per queste discussioni tra donne e uomini.
L’idea è semplice e parte dalla presentazione pubblica del nostro discorso a Milano (il 23 maggio 2011, alla Camera del lavoro). La proposta è quella di attivare le proprie relazioni di fiducia tra uomini e donne e servirsi di una pratica come quella che mostriamo, in tutti i luoghi associativi e istituzionali che abbiano una minima sensibilità a questi temi, in tutti i luoghi di vita e di lavoro dove questo è possibile. Perché il discorso pubblico sulla violenza e le relazioni diventi una pratica politica, capace di suscitare nuove risorse sociali e culturali. 
Come dice Johan Galtung nel contesto dei grandi conflitti internazionali, e a me sembra vero anche per la violenza maschile sulle donne, la violenza strutturale di una società va discussa a tutti i livelli della società stessa, per avere delle possibilità di trasformazione (Johan Galtung, La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici, Centro Studi Sereno Regis, Torino 2006). Poi probabilmente ci vuole una visione di quadro, una capacità di raccolta e di coordinamento di queste esperienze (non è poca cosa, ma nel sociale ci sono intelligenze e sensibilità capaci di questo).
Così, da questo percorso di partecipazione di donne e uomini potrebbe nascere un salto politico, che immagino sia nella coscienza collettiva che nel rapporto con il potere.
Penso allo svelamento delle profonde radici relazionali e culturali della violenza maschile sulle donne, superando quelle strategie di occultamento di cui parlano in profondità Patrizia Romito e altri (Patrizia Romito, Un silenzio assordante, Franco Angeli 2005).
E immagino, assieme a questa operazione di svelamento, la promozione di una nuova civiltà delle relazioni tra uomini e donne.
E infine penso a questa modalità di confronto con il potere: che dall’assumere su di noi, donne e uomini interessati, la questione della violenza sulle donne, possa venire una nostra richiesta autorevole di scelte politiche e istituzionali conseguenti. Fuori dalle derive securitarie o di solo inasprimento delle pene o di tutela paternalistica delle donne, come succede nel nostro sistema attuale, che non sfiorano nemmeno la realtà delle cose. E invece c’è una realtà, c’è un mondo da riprenderci, a partire dalla città in cui viviamo.





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